Through the looking glass

ovvero alice nel paese delle meraviglie e attraverso lo specchio
fotografie di margherita cecchini/occhioquadrato

testi critici



C'è qualcosa di profondamente fragile e inquietante nelle foto di Margherita Cecchini, qualcosa di così moderno e nello stesso tempo remoto che impedisce a chi guarda di sottrarsi alla domanda: 'dove mi portano queste foto, e perché sento di inoltrarmi in regioni sconosciute che tuttavia mi parlano delle mie origini?'. Credo che sia tutto qui il segreto di Margherita Cecchini, in questo rischio che corre di mostrarsi indifesa nel momento della partenza, quando presenta gli oggetti più quotidiani, le persone più banali, le situazioni più scontate nella loro realtà meno orgogliosa, senza abbellimenti tecnici o aiuti  implorati alla luce e all'ombra. Le cose sono lì, e basta. Ma qui comincia il viaggio, poiché tra me e quelle cose si stabilisce un legame che non è di comunicazione ma di partecipazione: quelle cose, quelle persone, quelle situazioni, mi riguardano, parlano di me, con gesti lenti, con accenti minimi, che oscillano appena al tocco dello sguardo. All'improvviso quelle scarpe mi corrispondono, anche se non le ho mai viste né indossate – sono scarpe da donna – eppure, mi raggiungono da un passato remoto in cui mia madre aveva avuto per un momento scarpe simili, o dello stesso colore o con quel particolare laccetto. E dove ho visto quella sedia davanti a un sole, o quel cucchiaio, quella caffettiera? Questi oggetti che riconosco nella loro  funzionalità, sono presentati come nudi, senza il loro naturale ambiente, ma proprio per questo diventano correlativi oggettivi, stabiliscono la corrispondenza tra la mia anima e le cose, nell'attimo stesso in cui il clic trasforma la perdita in eternità. E' strano e meraviglioso che l'eternità sia legata a uno scatto impercettibile, e spesso, per i fotografi meno dotati, inafferrabile, ma solo rincorso. Margherita ha questo dono, di costruire (o di svegliare) l'anima delle cose e di chi guarda quelle cose, e ritrovarne segrete corrispondenze nel passato più remoto e di proiettarle in paesaggi troppo davanti a noi per poterli circoscrivere in una definizione. Ma sappiamo che ci sono, e che là le anime nostre e dei nostri oggetti finiranno per incontrarsi, un luogo che forse si chiama 'inconscio' o forse 'storia' o forse 'origine'. Questo è il compito di Margherita Cecchini, questo è quello che deve fare con la sua macchina fotografica: scoprire territori di cui crediamo di ignorare l'esistenza attraverso l'assoluto quotidiano.

                 Sandro Toni, responsabile della Biblioteca di Cinema e Fotografia della Cineteca di Bologna

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Ho conosciuto Margherita Cecchini in occasione della presentazione del suo lavoro «A me gli occhi» di cui ho parlato nelle pagine locali bolognesi del quotidiano La Repubblica. Il lavoro mi è parso subito interessante in quanto centra l’essenza del mezzo fotografico nelle sue diverse accezioni, a dimostrare la padronanza da parte di Margherita di una tecnica precisa e di un linguaggio personale. Da una parte emergeva la volontà di documentare la realtà, radicata ad un territorio, vista però, d’altra parte, attraverso un’estetica non banale. Elementi che poi ho scoperto essere ricorrenti in tutto il lavoro di Margherita. In questo caso l’attenzione si focalizzava sugli abitanti di una via del centro di Bologna, via Broccaindosso, non ripresa però in maniera stereotipata nei loro luoghi di vita o di lavoro: si è fatto un passo in più e attraverso la fotografia si è arrivati a scoprire sentimenti, ricordi, passioni. Le persone erano poste davanti ad un semplice muro bianco, sfondo asettico, per lasciare parlare oggetti e volti. E qui si nota la bravura di Margherita a cogliere l’attimo, la sua capacità di catturare il lato più introspettivo e intimo dell’essere umano. Il formato non è casuale e ripropone il quadrato come cifra stilistica e interpretativa di Margherita Un formato che riporta al linguaggio analogico (Margherita non usa il digitale), primario ed essenziale del mezzo. Qualità semantica dei suoi lavori perché il quadrato è sì una forma geometrica ma soprattutto il “frame”, la “cornice” che diventa occhio, codice interpretativo. Dentro al quadrato si muovono e si collocano le visioni di Margherita a riportare il significato in una condizione di spazio/tempo ben delimitate. Ma sono poi i dettagli delle inquadrature, le “sbavature” prodotte dal processo manuale e analogico, a produrre lo scarto lasciando intendere che oltre al limite il significato prosegue, che il fuoco (significante da cui parte il significato) si può sbilanciare al di là del centro della visione. 
Quel carattere spazio/temporale corrisponde alla realtà perché Margherita cattura frammenti del mondo che la circonda, cogliendoli per le strade, nelle case, senza il bisogno di dover costruire qualche cosa in studio. Progetto istintivo mediato dalla capacità di cogliere la luce più appropriata che può cambiare una visione, la poetica delle cose di tutti i giorni stupendosi davanti ad un fico d’India. Nell’usare il negativo la fotografa accetta il rischio dell’errore, della casualità che può diventare elemento aggiuntivo del lavoro. Non è casuale invece la voglia di mettere in ordine le immagini che appaiono come visioni della realtà, in progetti preordinati, ben specifici, una sorta di “archivi della memoria” che Margherita ha potuto toccare con mano durante la sua esperienza all’archivio fotografico della Cineteca di Bologna. Così a Parigi il progetto “A me gli occhi” si potrebbe allargare al territorio della capitale francese: l’obiettivo in questo caso sarebbe quello di entrare nelle case dei parigini e legare i loro ritratti ad oggetti simbolici che rappresentino la parte emozionale della loro vita. Immagini di volti che potrebbero essere messi in relazioni con i ritratti di parigini che Margherita vorrebbe cercare negli archivi pubblici della città. 
La propensione ad andare all’essenza delle cose, alla loro massima profondità, si esplica in lavori come “Through the Looking-glass”, in cui il punto di vista ravvicinato è determinato da un formato molto piccolo. Un modo per sottolineare che la superficie è una condizione effimera, labile, scivolosa; che la velocità non lascia tracce; che la facilità del lavoro soddisfa nell’immediato ma stanca nei tempi lunghi; che lo stupore delle cose va scoperto pian piano, con rispetto, con pazienza, con lungimiranza.

Paola Naldi, critica d'arte per la Repubblica Bologna e per il Giornale dell'Arte (Allemandi editore)

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